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Social Business and Economic Growth

Intervento di Lorenzo Bini Smaghi, Membro del Comitato esecutivo della BCE,
Executive Summit on Ethics for the Business World,
Città del Vaticano, 16 giugno 2011

Mi fa molto piacere intervenire a questa conferenza sull’etica nel lavoro nella società contemporanea, per esporre il punto di vista di un banchiere centrale.

È noto nell’analisi economica che la massimizzazione del benessere generale di una società non corrisponde alla somma delle utilità individuali, a causa in particolare delle esternalità negative che possono risultare dai singoli comportamenti. Questo è il motivo per cui una società deve dotarsi di regole e istituzioni che hanno come obiettivo di minimizzare tali esternalità. Ci si può chiedere se lo stesso si applichi al campo dell’etica. In altre parole, ci si può chiedere se sia sufficiente che i singoli operatori seguano principi etici condivisi, in particolare nel campo lavorativo, per raggiungere un equilibrio eticamente sostenibile a livello sociale.

Vorrei partire dall’analisi dei principali fattori che hanno innescato la crisi finanziaria, in particolare negli Stati Uniti. In estrema sintesi, la principale causa della crisi è stata l’eccessiva domanda di credito da parte delle famiglie, sopratutto quelle meno abbienti. Questa domanda è stata in larga parte assecondata e incoraggiata dal sistema finanziario, che ha sviluppato tecniche sofisticate – anche se non sempre trasparenti – di razionalizzazione, gestione e distribuzione del rischio, in un contesto di generale allentamento della regolamentazione richiesto dagli operatori e accordato dal sistema politico. L’eccesso di indebitamento ha creato una bolla speculativa che, dopo essere scoppiata, ha provocato ripercussioni a catena sul sistema finanziario e sull’economia reale.

Le responsabilità sono diffuse, di natura sistemica. Sono talmente diffuse da poter in qualche modo essere giustificate singolarmente, anche in termini dei comportamenti individuali. L’acquisto di una casa è il sogno di ogni famiglia, nella prospettiva di un miglioramento delle proprie condizioni di vita e di integrazione nella società americana. Anche se molte famiglie sapevano di esporsi in modo eccessivo, rispetto alle loro disponibilità, confidavano nell’aumento futuro del prezzo dell’abitazione acquistata, come si poteva desumere dalle tendenze degli anni precedenti. Comprare casa, mandare i figli a una università migliore, cercare di sostenere il tenore di vita con il debito anche nelle fasi di difficoltà, non era diverso da quello che intere generazioni di americani avevano fatto per decenni. Corrispondeva al sogno americano.

Guardando al problema dal lato dei mercati finanziari, e dei singoli operatori, la de-regolamentazione del sistema per “democratizzare” il debito e renderlo accessibile anche alle fasce più deboli è stato considerato negli anni Novanta e Duemila un obiettivo di tutte le parti politiche. Era considerato il compito delle istituzioni finanziarie sviluppare nuovi strumenti, anche quelli più sofisticati, per sostenere il sistema economico. La remunerazione degli azionisti era considerato un parametro oggettivo per misurare il merito, e la ricerca di una remunerazione sempre maggiore il modo per aumentare l’efficienza del sistema.

Dal lato politico, lo sviluppo del settore finanziario e di quello immobiliare favorisce la crescita economica e contribuisce alle finanze pubbliche del paese. Le misure di deregolamentazione, per favorire l’acquisto delle case da parte dei meno abbienti e per agevolare il sistema finanziario, che contribuiva all’erario in misura sempre maggiore, apparivano ampiamente giustificate.

In sintesi, escludendo alcuni casi specifici (come Maddoff per intenderci), è difficile sostenere che la stragrande maggioranza dei comportamenti che hanno in ultima istanza generato gli squilibri sottostanti alla crisi finanziaria non fossero in linea con norme legali o etiche condivise dalla società in quel momento. Anche i lauti bonus dei banchieri d’affari, giudicati oggi in modo negativo, erano considerati prima della crisi come un premio adeguato per una professione complessa e specialistica, verso la quale si indirizzavano i migliori studenti universitari.

Qualcosa evidentemente era sbagliato. Le aspettative di continuo miglioramento del tenore di vita, su cui si basava la crescente domanda di credito delle famiglie americane, non erano sostenibili perché i cambiamenti tecnologici e i processi di globalizzazione hanno modificato in modo permanente il potenziale di crescita delle economie avanzate. Pensare di continuare a crescere negli anni recenti a un ritmo simile a quello degli anni passati è stato il frutto di una illusione collettiva. Una simile illusione si è diffusa sui mercati finanziari, dove la ricerca di rendimenti sempre più elevati, in un contesto di asimmetrie informative caratteristico dell’attività finanziaria, ha spinto creditori e debitori a sottostimare i rischi e a farsi carico di un eccesso di leva finanziaria. Attratti dai vantaggi di breve periodo, in termini di maggior crescita economica e di risanamento delle finanze pubbliche, gli esponenti politici hanno dato meno importanza ai rischi di lungo periodo connessi ad un eccesso di indebitamento del settore privato. La fiducia nell’autoregolamentazione, alimentata anche dal mondo accademico, ha deresponsabilizzato le autorità pubbliche.

Questa non è tuttavia la prima crisi finanziaria. Sappiamo, e l’esperienza lo conferma, che per contrastare i comportamenti pro-ciclici e le esternalità del sistema finanziario sono necessarie regole prudenziali mirate. Si tratta dunque di rafforzare la regolamentazione finanziaria, invertendo la tendenza emersa negli anni precedenti alla crisi a ridurre l’incidenza delle regole.

Sappiamo però anche che uno degli obiettivi del sistema finanziario è di innovare continuamente, per creare nuovi strumenti di gestione del rischio o incrementare il rendimento. L’attività finanziaria tende a spostarsi al di fuori della regolamentazione, al fine di “battere il mercato”. In un contesto dinamico come quello che caratterizza i mercati finanziari, la semplice applicazione delle regole in vigore non è sufficiente a minimizzare le esternalità che derivano dalla massimizzazione degli interessi individuali e a ridurre i rischi di dinamiche instabili.

Faccio un esempio. Lo sviluppo di strumenti sofisticati, come i credit default swaps, consente di proteggersi meglio da alcuni rischi e di sviluppare la diffusione di alcuni strumenti finanziari. È più facile investire in un titolo di stato di un paese a rischio se c’è la possibilità di proteggersi dal rischio di insolvenza. Il CDS aumenta dunque la liquidità del mercato, a vantaggio sia dell’emittente che dell’investitore. Il CDS può tuttavia essere acquistato anche senza avere la disponibilità del titolo sottostante. Ciò significa potersi assicurare contro il rischio di insolvenza di un’azienda, di una banca o di un paese anche senza avervi investito. In questo modo si crea l’incentivo a scommettere sul fallimento di aziende, banche o interi paesi. Quando il numero di operatori che richiede tali strumenti aumenta, nel breve periodo ceteris paribus il premio sale, segnalando un incremento nella probabilità di fallimento e innescando a sua volta una maggior domanda.

Nell’estate 2008, ad esempio, poco prima il fallimento di Lehman Brothers e nelle settimane successive, ciascun operatore finanziario cercava di sopravvivere al crollo dei mercati attraverso operazioni speculative che sostanzialmente consistevano nello scommettere sul fallimento degli altri operatori in difficoltà. Ciò ha creato un effetto di avvitamento che ha contribuito all’aggravamento della crisi.

In sintesi, nei mercati odierni non si sceglie solo in quali attività finanziarie investire, ma anche “contro” chi investire. Inoltre, la probabilità di successo dipende dalla capacità di mobilitare altre forze nella stessa direzione contraria, in modo da provocare una tendenza al ribasso del prezzo del titolo fino a quando viene dichiarato il fallimento. Non sorprende allora che le principali case d’investimento rendano pubbliche le loro opinioni sulla qualità di diversi tipi d’investimento, forse con l’intento di indurre altri a fare lo stesso.

La lotta per la sopravvivenza, che nel sistema capitalistico dovrebbe premiare l’impresa che ha il miglior prodotto, cambia natura. Soprattutto in una fase di difficoltà economica, in cui i rendimenti sono limitati, può sopravvivere chi scommette sul fallimento di altri, e riesce a convincere il mercato che tale fallimento è inevitabile. Non si tratta più della distruzione creativa schumpeteriana ma la distruzione distruttiva, che fa sopravvivere chi scommette invece di chi innova e produce.

Lo stesso vale per i paesi, nei confronti dei quali si può scommettere incassando il premio nel caso di default. La probabilità di incassare il premio è maggiore, maggiore è il numero di chi scommette contro la tenuta del paese. E il default di un paese comporta depressione economica con conseguenze gravi per il tessuto sociale e l’assetto democratico.

Questo sistema crea incentivi per comportamenti non in linea con i canoni etici sui quali si è basato il sistema capitalistico di mercato. Non conta più (solo) concentrarsi sul proprio mestiere e riuscire a farlo meglio degli altri, ma (anche) individuare le debolezze degli altri, scommetterci sopra e convincere altri a fare lo stesso per provocarne il fallimento. Poco importa se l’impatto recessivo è sistemico, poiché il costo viene scaricato in larga parte sui contribuenti.

Come è possibile contrastare queste dinamiche destabilizzanti dei mercati, con effetti devastanti per l’economia reale?

Come ho ricordato sopra, la sola applicazione delle regole non è sufficiente perché nella maggior parte dei casi esse guardano al passato e non sono in grado di disciplinare comportamenti e strumenti innovativi. Inoltre, le regole vengono in larga parte disegnate per disciplinare fasi di mercato caratterizzate da relativa stabilità, non situazioni eccezionali che richiedono capacità d’intervento discrezionale.

L’etica dei singoli è un fattore di disciplina importante, ma si basa sul principio di autoregolamentazione. Soprattutto nelle fasi turbolente dei mercati, l’operatore che non è in grado di ottenere un rendimento superiore a quello degli altri, o di minimizzare le perdite, rischia di essere espulso. Se la maggior parte degli operatori fa un uso intensivo di strumenti finanziari destabilizzanti, chi si astiene rischia di soccombere.

Diventa essenziale il ruolo delle autorità di regolamentazione, come le banche centrali, che hanno una visione di medio periodo e una capacità di intervento autonomo per adeguare le regole, o sospendere quelle in vigore, al fine di contrastare i comportamenti pro-ciclici di breve periodo degli operatori ed attenuarne le conseguenze destabilizzanti. Per poter svolgere quest’azione, e agire anche a fronte di pressioni esercitate da chi nel breve periodo trae vantaggio dall’assenza di regole, è necessario poter disporre di indipendenza e autonomia di azione.

Vi è un’ampia letteratura sull’indipendenza delle istituzioni pubbliche, in particolare quelle chiamate a regolare i mercati finanziari e a difendere il valore della moneta, come le banche centrali. Mi sembra opportuno ricordare alcuni connotati che caratterizzano il concetto di indipendenza perché sono strettamente correlati ad alcuni valori etici fondamentali. Non è un caso che i banchieri centrali hanno adottato come loro protettore San Tommaso Moro, che con la sua indipendenza di giudizio e la ferma convinzione nella supremazia dell’interesse pubblico riuscì a resistere alle pressioni del Re Enrico VIII – del quale era stato il più stretto consigliere prima della sua nomina di Lord Cancelliere – fino ad essere costretto alle dimissioni, incarcerato e poi condannato a morte.

Vorrei in proposito citare Benedetto XVI nel suo discorso a Westminster nel Settembre 2010:

“Vorrei ricordare la figura di San Tommaso Moro, il grande studioso e statista inglese, ammirato da credenti e non credenti per l’integrità con cui fu capace di seguire la propria coscienza, anche a costo di dispiacere il sovrano, di cui era “buon servitore”, poiché aveva scelto di servire Dio per primo.”

Può sembrare ardito associare una banca centrale alla Chiesa, eppure è proprio ciò che ha fatto Monsignor Heinrich Mussinghoff, vescovo di Aquisgrana, esattamente due settimane fa nella sua omelia in occasione della consegna del premio Carlo Magno a Jean Claude Trichet:

“Le questioni finanziarie hanno un carattere di servizio pubblico. Ciò si applica anche all’euro, che serve a realizzare una visione comune di una Europa unita nello spirito dell’umanesimo. È in questo spirito che la Banca Centrale Europea [..] e noi – membri della Chiesa – dobbiamo farci carico di un impegno comune verso i popoli di questo continente e oltre.”

L’indipendenza delle banche centrali non dipende più – fortunatamente - dall’eroismo dei suoi esponenti. In Europa è il Trattato di Maastricht a definire e proteggere l’indipendenza della BCE e delle banche centrali nazionali, che insieme costituiscono l’Eurosistema. All’inizio dell’unione monetaria i paesi dell’area dell’euro hanno adeguato le normative delle proprie banche centrali al Trattato. Anche i cambiamenti successivi sono stati sottoposti al vaglio della BCE, per verificarne la coerenza con il Trattato.

Vi è oramai una dottrina consolidata per valutare l’indipendenza della banca centrale secondo quattro criteri fondamentali:

  • l’indipendenza funzionale, che richiede la definizione di un obiettivo chiaro – la stabilità dei prezzi – e la dotazione degli strumenti adeguati per poterlo raggiungere;

  • l’indipendenza istituzionale, che vieta agli organi decisionali della banca di chiedere o di prendere istruzioni da altri organismi e governi e a questi ultimi di influenzare le decisioni della banca;

  • l’indipendenza personale, che garantisce la permanenza in carica dei membri degli organi decisionali per tutto il periodo prestabilito dalla nomina (8 anni nel caso della BCE, e un minimo di 5 per la banche centrali nazionali) e tutela contro la loro revoca arbitraria;

  • l’indipendenza finanziaria, che consente alla banca centrale di essere dotata delle risorse finanziarie sufficienti per espletare il loro mandato.

Questi criteri sono stati essenziali per proteggere le banche centrali dai tentativi di influenzarne l’azione, anche durante la crisi. Forte è infatti la tentazione di scaricare sulla politica monetaria l’onere di intervenire in campi che competono principalmente all’autorità fiscale, come il sostegno di bilancio ai paesi in difficoltà. Il dibattito di questi giorni sul programma di risanamento greco e sulle modalità di coinvolgimento del settore privato nel finanziamento di quel paese mostra come, anche in un contesto di tradizionale rispetto dell’autonomia delle banche centrali, può riemergere la tentazione di far finanziare il bilancio pubblico con la moneta. Chiedere, come è stato fatto di recente, che la BCE estenda le scadenze dei titoli di stato in suo possesso o accetti titoli di uno stato considerato in default come collaterale per le operazioni di ri-finanziamento del sistema bancario è una violazione del divieto della banca centrale di finanziare monetariamente i tesori, divieto esplicitamente previsto nel Trattato. Qualsiasi pressione in tal senso viola le norme di indipendenza che difendono la BCE.

Nelle società avanzate, basate su sistemi finanziari sofisticati, la somma dei comportamenti individuali ottimali non porta necessariamente ad una maggior prosperità collettiva. L’etica della responsabilità individuale non basta. È necessario costruire un assetto istituzionale che allinei maggiormente gli incentivi dei singoli, primariamente di breve periodo, al benessere collettivo di medio-lungo termine, che tenga conto anche degli interessi delle future generazioni. Le considerazioni etiche non possono applicarsi dunque solo agli individui, ma alla collettività e alle istituzioni che rappresentano la continuità dell’interesse collettivo, oltre al ciclo politico di breve periodo.

L’Unione europea ha di recente compiuto dei passi avanti importanti in questa direzione, come il rafforzamento delle regole di bilancio previsto nella nuova governance economica europea e la creazione di nuove autorità di vigilanza. L’esperienza di questa crisi può servire a rafforzare le nostre istituzioni, che sono il fondamento di una società più giusta, e a ripristinare fiducia.

Vorrei concludere con le parole di Monsignor Mussinghoff del 2 Giugno scorso:

“La BCE ha saputo creare un clima di fiducia anche in tempi difficili e ha contribuito alla realizzazione di questa grande visione europea… L’unione con quelli che condividono la nostra visione umanista dell’Europa ci incoraggia in questa via. Insieme riconquisteremo la fiducia, perché la fiducia vince.”

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