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Lo scenario economico e finanziario per l’Europa

Discorso di Lorenzo Bini Smaghi, Membro del Comitato esecutivo della BCEIntervento al Forum Economia e RisparmioMilano, 27 gennaio 2007

Il quadro macroeconomico nell’area dell’euro

La ripresa economica dell’area dell’euro, avviata nella seconda metà del 2005, si è progressivamente rafforzata.

Nel 2006 il tasso di crescita dovrebbe essere stato superiore al 2,5 per cento, il ritmo più elevato dal 2000.

La domanda interna è stata la principale determinante dell’attività economica. Questo conferma che la ripresa è diffusa e meno dipendente dall’impulso esterno.

Un indicatore importante per valutare la sostenibilità dell’attuale fase di ripresa è l’occupazione. Negli ultimi mesi il tasso di disoccupazione è calato fino a raggiungere il 7,6 per cento, nel novembre dello scorso anno, un livello più basso del minimo registrato in occasione della precedente fase di espansione ciclica verificatasi nel 2000.

La crescita della domanda interna è stata particolarmente sostenuta, a un ritmo del 2,8 per cento su base annua nel terzo trimestre dello scorso anno, contro il 2 per cento registrato nell’anno precedente, e l’1,7 per cento nel 2004. È più sostenuta la crescita degli investimenti, al 4,6 per cento (contro il 3,3 per cento nel 2005, e l’1,8 per cento nel 2004). Si registra, inoltre, una ripresa moderata dei consumi (con un tasso di crescita annuale dell’1,8 per cento nel terzo trimestre dello scorso anno).

Le prospettive di crescita di medio termine rimangono favorevoli. Vi sono i presupposti perché nell’anno in corso e nel prossimo l’economia dell’area dell’euro cresca a ritmi sostenuti, prossimi o addirittura superiori al potenziale.

Le ultime informazioni provenienti dalle indagini sul clima di fiducia e le stime basate su vari indicatori suggeriscono un proseguimento della crescita economica e un ulteriore miglioramento dell’occupazione. Sebbene ci si possa aspettare una certa variabilità dei tassi di crescita trimestrali intorno al volgere dell’anno – associata in particolare all’effetto delle maggiori imposte indirette in Germania – le informazioni disponibili continuano a essere in linea con lo scenario di base.

Il contesto esterno rimane favorevole, malgrado il previsto rallentamento dell’economia statunitense. L’espansione dell’economia mondiale appare meglio distribuita, e il rallentamento negli Stati Uniti dovrebbe essere compensato da una tenuta della crescita in altri paesi, in particolare in Asia, che rappresenta ormai il primo mercato di sbocco per l’area dell’euro.

Nell’area dell’euro, la domanda interna dovrebbe rimanere vivace. Gli investimenti dovrebbero continuare a trarre beneficio dal prolungato periodo di condizioni finanziarie favorevoli, dagli utili elevati e dai guadagni di efficienza registrati dalle imprese. Anche la dinamica dei consumi dovrebbe rafforzarsi nel tempo, in linea con l’andamento del reddito disponibile e il previsto ulteriore miglioramento dell’occupazione. Questo appare confermato dagli indicatori sul clima di fiducia delle famiglie e delle imprese.

Il quadro previsivo a breve-medio termine è in linea con le previsioni delle principali istituzioni internazionali e degli operatori di mercato. Per il 2007, il tasso di crescita del Pil dell’area dell’euro viene previsto al 2,1 per cento dalla Commissione Europea, al 2,2 per cento dall’OCSE e del 2 per cento dal Consensus Forecast.

Tuttavia, questo scenario non è privo di rischi.

Il rallentamento economico negli Stati Uniti, determinato dalla revisione al ribasso delle quotazioni immobiliari, per ora non ha avuto effetti negativi sui consumi interni. Non si possono però escludere ripercussioni più accentuate, che frenerebbero ulteriormente la domanda statunitense.

Altri rischi per la crescita europea potrebbero provenire dagli effetti degli inasprimenti fiscali in atto nei paesi che hanno concentrato la manovra di aggiustamento fiscale sulle entrate. Da un lato, ci si può aspettare che l’aumento delle entrate produca, nel breve periodo, un effetto restrittivo sulla spesa. Dall’altro, il risanamento dei conti pubblici, se proseguito tenacemente nel tempo, produce un effetto positivo sulla fiducia dei consumatori e degli investitori, e sostiene a lungo andare la domanda interna. L’effetto netto di questi due fattori dipende dalla determinazione con la quale le autorità di politica economica intendono perseguire negli anni a venire il processo di risanamento delle finanze pubbliche.

La crescita nell’area dell’euro potrebbe infine risentire in modo negativo di una correzione disordinata degli squilibri mondiali.

Passando alle prospettive per l’andamento dei prezzi, il 2006 si è chiuso con un tasso d’inflazione dell’1,9 per cento. Nei prossimi mesi, la variabilità delle quotazioni energetiche continuerà ad influire sul profilo dell’inflazione, insieme all’impatto delle imposte indirette.

In una prospettiva di medio termine, l’inflazione è prevista oscillare intorno al 2 per cento.

Bisogna tuttavia tener conto di tutta una serie di rischi, che possono derivare in particolare dalla trasmissione dei passati rincari del greggio ai prezzi al consumo, da ulteriori aumenti dei prezzi amministrati e delle imposte indirette, nonché dalla possibilità di nuovi rincari del prezzo del petrolio. Inoltre, vi è il rischio che la dinamica salariale non sia coerente con il ritmo di crescita della produttività. Tornerò su questi rischi tra poco.

Non è detto che questi rischi si concretizzino, ma è essenziale per la Banca centrale monitorare in modo molto attento gli sviluppi di queste variabili per evitare ulteriori pressioni sui prezzi.

L’analisi monetaria mostra che, con il rafforzamento della crescita, sussistono rischi inflazionistici nel medio-lungo periodo. La dinamica della moneta, del credito e delle varie componenti confermano che l’attuale livello dei tassi d’interesse di certo non costituisce un freno alla crescita. Usando i più diversi metodi di valutazione, le condizioni monetarie continuano ad essere accomodanti.

La politica monetaria

Con la ripresa dell’attività economica, nella seconda metà del 2005, la Banca Centrale Europea ha cominciato ad aumentare il tasso d’interesse, dal livello minimo del 2 per cento sul quale era rimasto per oltre 2 anni.

All’inizio, molti osservatori - politici, accademici, e anche alcune istituzioni internazionali - avevano chiesto alla BCE di non aumentare i tassi. Secondo quei punti di vista, l’inflazione era ancora bassa e l’aumento dei tassi avrebbe rischiato di stroncare la ripresa.

Avevano torto, e la storia degli ultimi mesi l’ha dimostrato.

La politica monetaria produce i propri effetti sull’inflazione con ritardi significativi (un anno e oltre, secondo molte stime). I tassi d’interesse vanno dunque modificati non in funzione della situazione economica corrente, ma degli andamenti previsti nell’arco dei prossimi trimestri. Aspettare che l’inflazione aumenti, prima di adeguare i tassi d’interesse, significa di fatto alimentare le pressioni inflazionistiche; può comportare una crescita delle aspettative d’inflazione che, se radicate nei comportamenti degli operatori, hanno un impatto negativo rilevante per i tassi d’interesse a lungo termine, le decisioni d’investimento e l’onere del finanziamento del debito pubblico. Questa situazione richiede alla fine un repentino aumento dei tassi d’interesse a breve termine, forse più tardi ma certo di maggiore entità, al fine di sradicare i comportamenti inflazionistici che si sono lasciati sviluppare troppo a lungo.

Un errore di questo tipo può essere costoso per la crescita economica, come ha dimostrato l’esperienza storica, e quella di altri paesi fuori dall’area dell’euro.

Per essere efficace, la politica monetaria deve agire d’anticipo, adeguando i tassi d’interesse alle condizioni in divenire dell’economia, così da contrastare sul nascere le pressioni sui prezzi e mantenere sotto controllo le aspettative d’inflazione. Solo in questo modo la politica monetaria può contribuire a favorire una crescita sostenibile e duratura dell’attività economica.

Vi è ormai un’ampia evidenza empirica sul fatto che la politica monetaria messa in atto dalla BCE in questi anni, concentrata in via prioritaria sulla stabilità dei prezzi, abbia fornito un contributo importante alla crescita. I tassi d’interesse sono rimasti su livelli bassi, sia a breve che a lungo termine, contribuendo a creare condizioni di finanziamento particolarmente favorevoli per le famiglie e per le imprese, a beneficio della crescita economica e dell’occupazione.

La strategia fin qui seguita dalla BCE, che si è dimostrata corretta, proseguirà nei prossimi mesi. L’andamento dei tassi d’interesse continuerà ad essere determinato dall’evoluzione delle condizioni di fondo dell’economia, valutate e anticipate in base agli indicatori disponibili, per evitare che si concretizzino rischi per la stabilità dei prezzi. Una strategia che guarda in avanti rappresenta l’unico modo per ancorare le aspettative di inflazione su livelli coerenti con la stabilità dei prezzi, e costituisce un presupposto essenziale affinché la politica monetaria continui a contribuire a una crescita economica sostenibile e alla creazione di posti di lavoro nell’area dell’euro.

Nonostante l’esperienza favorevole di questi anni, molti ancora guardano al tasso d’inflazione dell’ultimo mese come indicatore di quello che potrà, o dovrebbe, fare la Banca centrale. Spesso si sente affermare: “Non c’è inflazione, e dunque non c’è bisogno di modificare i tassi d’interesse”. La risposta a questo tipo di affermazione è che se si aspetta che l’inflazione aumenti, sarà troppo tardi. Più si aspetta - più tardi agisce la Banca centrale - più forte dovrà poi essere la reazione della politica monetaria, con effetti negativi sulla crescita.

In prospettiva, quali sono i rischi per la stabilità dei prezzi?

Un primo rischio deriva dal prezzo dei prodotti petroliferi. Negli ultimi mesi questi prezzi sono calati (sia pure con un nuovo rialzo più di recente), portando l’inflazione temporaneamente sotto il 2 per cento. L’effetto immediato di un calo dei corsi petroliferi è favorevole alla stabilità dei prezzi. Esso contribuisce tuttavia anche a stimolare la domanda interna e a sostenere la crescita; aumentando il potenziale di crescita di lungo periodo dell’economia. In prospettiva, un aumento della crescita, se sostenuto nel tempo, richiede un adeguamento delle condizioni monetarie. Questo è peraltro pienamente anticipato dai mercati, come si osserva dalla correlazione negativa che sembra emergere tra i tassi d’interesse reali a lungo termine e le quotazioni petrolifere, almeno negli ultimi anni.

Un altro rischio per la stabilità dei prezzi può emergere dagli andamenti sul mercato del lavoro. Con il miglioramento dell’occupazione, e la progressiva riduzione del tasso di disoccupazione, rischiano di emergere frizioni che possono dar luogo a pressioni salariali che immediatamente si rifletterebbero sui prezzi. È quindi necessario che i salari non aumentino più della produttività. Purtroppo, invece, in questi anni in alcuni paesi dell’area dell’euro è avvenuto l’opposto, il che ha prodotto aumenti dell’inflazione e perdite di competitività.

Se tali tendenze si generalizzassero, le pressioni salariali si tradurrebbero in un aumento dei prezzi, vanificando i benefici per il reddito delle famiglie, per la crescita e per l’occupazione.

Un ultimo rischio per la stabilità dei prezzi che vorrei menzionare, è l’andamento dei prezzi amministrati, delle tariffe e dell’imposizione indiretta. L’esperienza ci ha insegnato che questi fattori hanno contribuito in misura non marginale all’aumento dei prezzi negli ultimi anni. Tali rialzi contribuiscono a ridurre il potere d’acquisto e ad innescare meccanismi perversi di rincorsa salariale.

Questi rischi vanno monitorati attentamente.

Per l’area dell’euro, la sfida è di proseguire la fase di crescita non inflazionistica, allungando la durata del ciclo e rafforzando le condizioni strutturali dell’economia.

Questo richiede interventi, sia dal lato della domanda sia dal lato dell’offerta, che in larga parte esulano dalla politica monetaria. Non esula però dalla Banca centrale il dovere di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e delle autorità di politica economica su questi temi, che intendo affrontare brevemente

La finanza pubblica

Una crescita duratura della domanda interna richiede una finanza pubblica in ordine. Se gli operatori - imprese o famiglie - sono incerti sull’andamento futuro delle finanze pubbliche, in particolar modo sulle imposte, il tasso di risparmio tende ad aumentare, affievolendo la domanda interna. Questo effetto negativo può essere particolarmente rilevante per i paesi con una dinamica demografica penalizzante, come quelli europei, in particolare l’Italia.

Un indicatore importante sullo stato di salute delle finanze pubbliche è il livello e la dinamica del debito pubblico, non solo rispetto al passato, ma anche e soprattutto al futuro. Peggiore è la dinamica del debito, maggiori sono le preoccupazioni delle famiglie e delle imprese sul loro futuro carico fiscale. Questa incertezza rende gli operatori più pessimisti riguardo al loro reddito futuro¸ e aumenta il risparmio precauzionale.

Sulle previsioni di finanza pubblica per i prossimi anni incidono due fattori principali di incertezza: l’impegno dei vari paesi a raggiungere una posizione di equilibrio e la sostenibilità dei sistemi pensionistici.

Questo è un problema che assilla vari paesi europei, inclusa l’Italia.

Per quel che riguarda l’andamento dei conti pubblici italiani, la manovra di bilancio appena approvata dovrebbe consentire di portare il disavanzo al di sotto del 3 per cento del Pil nel 2007. Questo è un risultato importante, necessario, che dovrebbe consentire di arrestare la tendenza all’aumento del debito: l’emorragia è stata arrestata.

Un disavanzo appena inferiore al 3 per cento non è però sufficiente per ridurre in modo sistematico il debito pubblico, in rapporto al Pil. Per avviare una riduzione sostenibile e credibile del debito pubblico, è necessario ridurre ulteriormente il disavanzo nei prossimi anni, fino al suo azzeramento.

Come mostra il Programma di Stabilità, recentemente inviato dal Governo italiano alla Commissione Europea, solo con un avanzo primario dell’ordine del 4 per cento del Pil è possibile ridurre in modo sistematico il debito in rapporto al Pil. Nel 2007 l’avanzo primario è stimato essere solo del 2,2 per cento.

Secondo gli obbiettivi contenuti nel Programma, il surplus primario supera il livello del 4 per cento solo nel 2010, in corrispondenza di un disavanzo pubblico pari a circa lo 0,5 per cento del Pil. Solo a quel momento si è raggiunta una situazione della finanza pubblica che consente di essere su un sentiero sostenibile. [1]

Per raggiungere questo obbiettivo in modo credibile, è essenziale innanzitutto attuare interamente il programma, che prevede ulteriori interventi strutturali, da definire e mettere in atto in ognuna delle prossime leggi di bilancio, per circa 0,5 punti percentuali di Pil all’anno. Inoltre, è necessario che eventuali maggiori entrate, derivanti in particolare da una crescita superiore al previsto e dal recupero dell’evasione, siano destinate in larga misura alla riduzione del debito.

Se invece i proventi fiscali derivanti dalla maggior crescita vengono usati per maggiori spese o per ridurre prematuramente il carico fiscale, si mette a repentaglio il processo di risanamento, soprattutto in caso di un improvviso rallentamento ciclico. Non c’è politica di bilancio più inadeguata di quella che elargisce risorse nella fase positiva del ciclo e ne sottrae quando l’economia rallenta. Eppure è quello che è avvenuto in molti paesi europei in questi anni, durante e dopo l’espansione economica nel biennio 1999-2000.

L’esperienza dovrebbe indurre a non ripetere l’errore.

L’esperienza di altri paesi mostra che il perseguimento con determinazione della strategia di riduzione del debito, per alcuni anni, anche a costo di mantenere immutata la pressione fiscale, rafforza la fiducia degli operatori, crea un circolo virtuoso di comportamenti che producono effetti benefici sulla crescita. Al contrario, l’assenza di indicazioni chiare sul modo in cui verranno usati eventuali bonus fiscali derivanti da maggior crescita o dalla lotta all’evasione, e la continua discussione pubblica su questo argomento, crea incertezza e delusione tra gli operatori economici, anche perché quanto può essere effettivamente retrocesso risulta essere inferiore alle aspettative create.

L’altro punto, sul quale non mi dilungo oggi, è la riforma del sistema pensionistico. Senza una modifica dei sistemi pensionistici, l’invecchiamento della popolazione determina un aumento della spesa. Il finanziamento richiede un aumento progressivo delle tasse, o dei contributi, o una riduzione di altre spese.

Da qui al 2040, in assenza di riforme dei sistemi pensionistici, le entrate fiscali dovranno aumentare di vari punti percentuali, in quasi tutti i paesi europei. In Italia, secondo le proiezioni contenute nel Programma di Stabilità inviato alla Commissione Europea, la spesa pubblica relativa alle pensioni aumenta di 3 punti percentuali del Pil, se non vengono modificati i parametri previsti dall’attuale sistema. Anche nel caso di una modifica di questi parametri, la spesa aumenterebbe di oltre un punto e mezzo percentuale nel 2040.

Queste valutazioni devono essere riviste in modo continuo, per tener conto dell’incremento della vita media, che non si può considerare finito.

Senza una riforma dei sistemi pensionistici, per adeguare l’età pensionabile in funzione dell’allungamento della vita, l’aumento dei contributi e delle tasse per finanziare i sistemi pensionistici ricade inevitabilmente sui giovani, sulle nuove generazioni.

Questa scelta produce una serie di distorsioni economiche, come l’aumento del costo del lavoro e la precarietà dei contratti dei lavoratori più giovani. Il deterioramento della situazione occupazionale giovanile nei paesi avanzati è in parte da attribuire alla sperequazione degli oneri contributivi, che nasce dalla mancata volontà di adeguare, per ogni generazione, gli oneri ai benefici pensionistici. I “diritti acquisiti” dei padri vengono pagati con salari più bassi e meno sicuri dei figli.

Le riforme strutturali

Affinché la crescita in Europa sia sostenibile e duratura, è necessario intervenire anche dal lato dell’offerta. Il potenziale di crescita dell’economia europea rimane basso, soprattutto quello italiano.

Per aumentarlo, è necessario far funzionare meglio i mercati.

Dal lato del mercato del lavoro sono stati fatti progressi importanti. Negli ultimi 8 anni, da quando è stato creato l’euro, sono stati creati nell’area circa 12 milioni di posti di lavoro, contro solo 2 milioni negli 8 anni precedenti.

In Italia, il tasso di disoccupazione è sceso al 6,7 per cento nel terzo trimestre del 2006, il livello più basso dal 1992. Il numero dei lavoratori dipendenti è aumentato di oltre 2,5 milioni nel giro di soli 10 anni.

Questo è il segno che le riforme funzionano. Lentamente, danno i loro frutti.

Bisogna dunque continuare sulla via segnata dalla strategia di Lisbona.

Questa strategia non trasferisce alcuna responsabilità aggiuntiva di politica economica dai paesi membri alle istituzioni europee. Al contrario, rimane compito delle autorità nazionali riformare i mercati e adeguare le strutture delle rispettive economie per far fronte alle sfide della globalizzazione.

La strategia di Lisbona ha come obiettivo di mettere a confronto, sulla base di indicatori sintetici, le performance dei vari paesi. Questo facilita il compito dei cittadini di verificare l’azione di politica economica svolta dai loro governi, ed eventualmente di confrontarla con quella degli altri paesi.

L’euro ha reso il processo di Lisbona più trasparente. In effetti, con la stessa moneta, e lo stesso tasso di cambio, il motivo per cui un paese cresce meno degli altri non può che essere collegato a un peggiore funzionamento dei mercati. Se quel paese vuole risalire la china, il sentiero più promettente è quello di seguire l’esempio dei paesi di maggiore successo.

Anche se si tende a dimenticarlo, vi sono molte storie di successo nell’area dell’euro, soprattutto negli Stati Membri più aperti al commercio internazionale. In 8 paesi su 12 la crescita del reddito pro capite degli ultimi 8 anni è stata uguale o superiore a quella degli Stati Uniti.

È nei 3 grandi paesi (Germania, Francia e Italia), oltre che in Portogallo, che la crescita è stata deludente. L’importante è capire perché e rimediare ai problemi.

Gli indicatori del processo di Lisbona sono molto utili al riguardo.

Nel caso dell’Italia, non vi possono essere dubbi sul fatto che si è perso progressivamente terreno nell’ultimo decennio. Il reddito pro capite italiano, una volta superiore a quello medio dell’area, è sceso al disotto della media nel 2004, per la prima volta negli ultimi 25 anni. [2]

Le ricette per tornare a crescere sono note.

Sforzi importanti sono stati fatti per quel che riguarda la riforma del mercato del lavoro, e stanno portando i loro frutti. Tuttavia, non va dimenticato che, nonostante i recenti progressi, l’occupazione rimane un’area nella quale l’Italia ha una delle peggiori performance all’interno dell’area dell’euro, soprattutto per quel che riguarda l’occupazione femminile, per la quale si registra tuttora un tasso inferiore al 50 per cento, e l’occupazione dei lavoratori anziani (oltre 55 anni), appena superiore al 30 per cento (contro un obbiettivo di Lisbona del 50 per cento).

Inoltre, la performance nella spesa per ricerca e sviluppo, tuttora all’1,2 per cento del Pil, ci pone tra gli ultimi paesi per questo importante obbiettivo dell’agenda di Lisbona, che fissa l’ammontare di questa spesa al 3 per cento del Pil. È da notare in particolare come sia la spesa privata per ricerca e sviluppo ad essere particolarmente bassa in Italia, un fenomeno da molti osservatori posto in relazione alla scarsa crescita dimensionale delle imprese italiane. Infine, l’Italia è nelle posizioni di coda riguardo al conseguimento di titoli di studio superiori, anch’esso un importante obbiettivo dell’agenda di Lisbona.

E’ necessario porre mano alla liberalizzazione dei mercati dei prodotti e dei servizi, che sono tuttora tra i più regolamentati d’Europa, per favorire la competizione e la crescita dimensionale delle imprese.

Non mi dilungo su questo argomento, che è ben noto. Il problema non è più ormai di comprensione del problema o di individuazione delle soluzioni, ma di consenso politico per metterle in atto.

Conclusione

Per concludere, l’economia dell’area dell’euro è in ripresa.

Il rischio è che la velocità di crociera rimanga bassa al confronto con le altre principali aree, industriali o emergenti.

Per aumentare la velocità di crociera è necessario che ognuno degli strumenti di politica economica venga indirizzato verso obbiettivi specifici di medio periodo: la politica monetaria per la stabilità dei prezzi; la politica di bilancio per risanare e finanze pubbliche e le politiche strutturali per aumentare il potenziale di crescita.

Ci sono le indicazioni che questo sta avvenendo nella maggior parte dei paesi europei.

È necessario perseverare.

Grazie per l’attenzione.

  1. [1] Si vedano le simulazioni contenute in Italy’s Stability Program, aggiornato a dicembre 2006, in particolare pagina 40. Disponibile su www.dt.tesoro.it.

  2. [2] Calcoli basati su dati della Commissione Europea.

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